Non è una richiesta che mi fanno spesso, ma capita di trovarsi a fotografare ambienti vuoti.
Erroneamente si può pensare sia una cosa semplice e veloce. Al contrario, fotografare un appartamento vuoto è sempre una nuova sfida contro la banalità.
Se l’immobile è già stato abitato, il rischio è che appaia abbandonato e mal assortito (pareti di colori diverse senza un motivo apparente, sagome fantasma dei mobili ecc.). Se al contrario è nuovo, può verificarsi l’effetto “white box”: una sequenza di fotografie “pavimento-2paretibianche-finestra” tra le quali risulta persino difficile distinguere il soggiorno dalle camere e che certamente non è di alcun aiuto nel comprendere come gli interni siano organizzati.
Valorizzare il vuoto significa per me far parlare l’architettura, seguirne le pieghe, trovare gli scorci per raccontare una storia che non è ancora stata scritta.

Di recente sono stata chiamata a questo compito. Mi sono chiesta innanzitutto: “cosa voglio raccontare di questo luogo ancora vergine?” La risposta non è mai scontata, ogni immobile per quanto vuoto, nuovo ed impersonale è unico. E trovarne la peculiarità è compito del fotografo, che deve renderla visibile anche agli occhi meno esperti. È così che mi sono trovata a seguire la piega di un tavolato storto e a costruire su quello degli scorci.
Non solo. Basta poco per creare un’atmosfera più accogliente agli occhi dell’utente ed evitare l’impressione di una stanza asettica: un tocco di verde, un po’ d’acqua che si muove fanno entrare un segno di vita in un luogo ancora “vergine”.

Come sempre, i sensi del fotografo devono essere all’erta, sfoderare tutta la propria sensibilità, entrare in empatia con l’ambiente – per quanto possa parere paradossale. In una parola, dobbiamo lasciare che le case ci parlino.
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